quando, nel 1933, joseph goebbels, ministro della propaganda nazista, iniziò il progetto di “allineamento alla cultura”, tutta la produzione artistica del paese dovette adeguarsi agli obiettivi nazisti. a essere escluse dalle organizzazioni culturali non furono solo le persone ebree o quelle reputate, sia dal punto di vista politico che artistico, sospette, ma anche oggetti materiale ed inermi, a quanto pare ritenuti “armi” in grado di indirizzare le opinioni, smuovere le coscienze, tenere in vita l’opposizione: i libri.

chi pensa che l’identità testuale, per un brand, sia meno importante di identità visiva, strategie di business, prodotti e servizi, o è in malafede oppure mente sapendo di mentire.

prendiamo come esempio, vedi riferimento iniziale dell’articolo, il nazismo. il nazismo è stato, tra le altre cose, un brand a tutti gli effetti. un brand che ha fallito e non ha superato il giudizio della Storia, perché il messaggio trasmesso e le azioni compiute, sono stati a dir poco aberranti. un brand dotato di un simbolo riconosciuto in ogni parte del mondo, di colori e codici visivi molto chiari, di un concept che non lasciava spazio a dubbi o interpretazioni, di un target disposto a credere in lui oltre ogni limite.

in questo scenario, quanto è stata decisiva la scrittura? pensando alle azioni di goebbels e soci, si può dire che sia stata fondamentale. proprio perché le parole concorrono a creare il brand e a trasmetterne con chiarezza visione, missione, valori, personalità e tono di voce, anche il nazismo, per acquisire sempre maggiore credibilità e arrivare a quante più persone possibili, ha avuto bisogno delle parole adatte per creare e consolidare il proprio mondo di riferimento.

ed è per questo che i libri considerati nemici dell’ideologia sono stati letteralmente messi al rogo, mentre quelli che esaltavano il mito della superiorità del Volk (popolo) tedesco, parlavano di guerra, di purezza ariana, che promuovevano il culto della forza e auguravano la morte ai nemici, sono diventati i veicoli attraverso cui il brand ha parlato al suo target.

quando si studia il nazismo non bisogna (solo) chiedersi come sia stato possibile che milioni di persone abbiano creduto ciecamente in esso, ma è necessario analizzare e capire quanto la cultura, la tradizione e la scrittura, trasmesse di generazione in generazione, siano state talmente forti da diventare un baluardo nel quale milioni di persone si sono riconosciute e dietro il quale si sono nascoste.

hitler non ha inventato nulla in termini di epica e tradizione. hitler ha parlato alle persone (anche) attraverso le parole, giusto per citarne alcuni, di Dietrich Eckart e Wilhelm von Polenz (quest’ultimo, scrittore brand oriented a sua insaputa, essendo morto nel 1903), autori di romanzi popolari contadini che raccontavano come l’uomo ebreo, per tradizione senza radici, calasse con sempre maggiore frequenza dalla città alla campagna per privare il contadino (eroe nazional-patriottico tedesco, saldamente radicato alla terra, segno tangibile di identità e appartenenza) della sua terra e dunque della sua ricchezza.

passano 75 anni e sulla scena politica, prima americana e poi mondiale, irrompe un uomo nato alle Hawaii, cresciuto in Indonesia e affermatosi in Illinois: Barack Obama, che diventa il 44° presidente, il primo nero della storia a stelle e strisce.

Obama diventa, da subito, un brand a tutti gli effetti. un brand molto pop. basta vedere il merchandising che ruota attorno alla sua figura: magliette colorate alla Andy Wharol con la sua effige e la scritta HOPE, tazze, spille, calamite, l’oggettistica più disparata.

chi crea la comunicazione di Obama sa che il senatore deve impostare la sua campagna su messaggi che segnano un forte cambiamento, deve entrare in ogni casa, usare un linguaggio che lo avvicini alla realtà dei giovani, di chi lavora ogni giorno per avere una vita migliore, per sé e per i propri cari, di chi crede ancora che il sogno americano sia possibile, anche se sei nato in condizioni difficili e disagiate. è così che vede la luce uno degli slogan più famosi e potenti mai esistiti: yes, we can. e l’autore è il giovane Jon Favreu, speechwriter capo di Obama. uno che, su scrivere brand oriented, avrebbe un’intera enciclopedia da condividere.

“Yes, we can” significa cambiamento rafforzato dall’essere un afroamericano di umili origini che per la prima volta correva per divenire Presidente, e creando un movimento di popolo intorno alla sua figura che appannava la candidatura di Clinton: la prima donna che correva per la Presidenza, ma forse troppo legata alla vecchia politica. Questa campagna inoltre è stata la prima che si è giocata con un ruolo fondamentale dei social network, utilizzati soprattutto da Obama per lanciare il suo messaggio di cambiamento e speranza, anche in antitesi con la grande macchina organizzativa dei Clinton fatta di volontari e porta a porta per catturare ogni singolo voto.

perché se i brand vogliono essere credibili quando scelgono di trasmettere i propri valori, devono avere il coraggio di pronunciare le parole giuste. come fece Obama, a gennaio del 2013, durante il discorso inaugurale del suo secondo mandato: “il nostro viaggio non sarà finito sino a quando i nostri fratelli e le nostre sorelle gay non saranno trattati come gli altri davanti alla legge. dobbiamo fare in modo che queste parole, questi diritti, questi valori, di libertà e uguaglianza divengano realtà per ogni americano. è questo il compito della nostra generazione”. questa è stata la prima volta che un presidente ha menzionato i diritti gay o la parola “gay” in uno speech inaugurale.

esistono ancora dubbi sul fatto che le parole siano decisive nel creare un brand e nel trasmettere la sua anima più profonda e autentica al proprio pubblico?